"Moreover, you scorned our people, and compared the Albanese to sheep, and according to your custom think of us with insults. Nor have you shown yourself to have any knowledge of my race. Our elders were Epirotes, where this Pirro came from, whose force could scarcely support the Romans. This Pirro, who Taranto and many other places of Italy held back with armies. I do not have to speak for the Epiroti. They are very much stronger men than your Tarantini, a species of wet men who are born only to fish. If you want to say that Albania is part of Macedonia I would concede that a lot more of our ancestors were nobles who went as far as India under Alexander the Great and defeated all those peoples with incredible difficulty. From those men come these who you called sheep. But the nature of things is not changed. Why do your men run away in the faces of sheep?"
Letter from Skanderbeg to the Prince of Taranto ▬ Skanderbeg, October 31 1460

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Riccardo Venturi
Le nostre antiche lingue
CHE COSA SAPPIAMO DELL'ETRUSCO?
it.cultura.linguistica
Livorno, 16 luglio - 15 ottobre 2001.
1.0: Introduzione
Scopo di questa serie di articoli è presentare le conoscenze attuali, (strutturali, morfologiche e
lessicali) della lingua etrusca che è stato possibile estrapolare dalle fonti documentali in nostro
possesso.
Conoscenze relativamente certe, e non ipotesi più o meno fantasiose o comunque non basate
sul metodo della comparazione storico-culturale.
1.1: Gli Etruschi e l'Etrusco
[Rielaborazione di un appunto del 1981]
Gli Etruschi, come si sa, costituiscono per l'opinione corrente un mistero. Fra tutti i popoli
dell'Italia antica essi soli, o quasi, sono considerati, in maniera astratta e fantasiosa, poco meno
che "marziani" vissuti fuori dal tempo e dallo spazio e scomparsi lasciando dietro di sé
enigmatiche testimonianze di una civiltà senza possibili confronti.
Gli studiosi degni di questo nome si sono sempre adoperati a contrapporre a tali fantasie il -
peraltro semplicissimo- concetto che la nascita del popolo Etrusco sia da riconoscere (come del
resto nel caso della maggior parte dei popoli Italici) in un lento e complesso processo di
formazione, verificatosi tra l'età del Bronzo e quella del Ferro; processo al quale, com'è
naturale, debbono aver variamente concorso elementi indigeni pre-indoeuropei e indoeuropei.
Dopo un plurisecolare periodo di vita autonoma e indipendente, integrata comunque in quella
di tutte le comunità coeve dell'Italia e del mondo Mediterraneo, gli Etruschi, al pari di tanti altri
popoli, furono totalmente assorbiti dalla nuova realtà politica, etnica e culturale rappresentata
dall'Italia unificata da Roma; beninteso, la realtà Etrusca fu una delle sue componenti principali
e più incisive. La vecchia Etruria, come ebbe a scrivere Massimo Pallottino, "si aprì
volenterosamente e integralmente alla latinizzazione; e non è senza significato che proprio la
terra Toscana ne abbia poi conservato le forme storicamente più pure e sia poi diventata la culla
della lingua italiana letteraria".
Ma l'aura di mistero che ha sempre avvolto gli Etruschi è dura a morire, come ogni cosa che,
per un motivo o per l'altro, "colpisce" ad un certo punto la fantasia popolare. Ancor oggi si
continua, irrazionalmente e contro l'evidenza stessa della storia e della scienza, a preferire il
"mistero" -peraltro ben rinfocolato spesso da pubblicazioni destituite d'ogni fondamento e/o da
certe trasmissioni televisive. Tale aura di "mistero" raggiunge il suo apice quando si tocca
l'argomento della lingua.
Quello della lingua Etrusca costituisce infatti l' "enigma" per eccellenza e, al tempo stesso,
l'aspetto più vivo, popolare e, diremmo, avvincente di tutto il "mistero Etrusco". Insomma,
parafrasando un celebre detto, "Etruscum est, non legitur". Come convincere l'opinione
pubblica che la lingua Etrusca non è *affatto* un "mistero"? Come far capire che si tratta
invece e soltanto di un problema scientifico che, come tale, deve essere affrontato non sperando
in un miracolo o in una rivelazione improvvisa, ma con mezzi esclusivamente scientifici, con
un lavoro serio e preparato e con una ricerca paziente, attraverso una serie progressiva e
prudentissima (come è poi effettivamente avvenuto) di acquisizioni parziali?
Mai divorzio più clamoroso, come per la lingua Etrusca, c'è stato fra la scienza linguistica da
una parte e, dall'altra, il dilettantismo, l'improvvisazione e la "communis opinio". La verità,
invece, è che la situazione delle nostre conoscenze dell'Etrusco è molto, ma molto meno
disperata di quanto si dice e si crede. Alcuni dati ed acquisizioni erano già note oltre duecento
anni fa. Fatta giustizia di ogni mistificazione e di ogni "clamorosa scoperta", l' "enigma" è stato
da tempo oramai ridimensionato e ricondotto nei termini razionali della conoscienza scientifica;
e i risultati degli studi, soprattutto in questi ultimi anni grazie al moltiplicarsi delle scoperte
epigrafiche ed al continuo perfezionarsi del metodo critico.
2.1: La mistificazione della "Decifrazione dell'Etrusco". La Scrittura.
[Rielaborazione ed integrazione di un appunto dattiloscritto del 1982]
L'Etrusco non ha nessun bisogno di essere "decifrato", se per "decifrazione" s'intende
"interpretare una scrittura sconosciuta". Tutto questo, semplicemente, perché la grafia Etrusca è
tutt'altro che sconosciuta; non è fatta di geroglifici o altri pittogrammi, non è la lineare A o B
(quest'ultima fu sì autenticamente "decifrata") e neppure il tanto di moda "manoscritto
Voynich". Si tratta, invece, nient'altro che di un banalissimo alfabeto greco, perciò leggibile
senza alcuna difficoltà.
Che l'Etrusco era scritto con un alfabeto simile a quello greco è noto ed appurato addirittura
fino dalla seconda metà del Quattrocento; questa è la prima risposta da dare a chiunque affermi
che la lingua Etrusca è "indecifrabile". Gli eruditi che, in quell'epoca, cominciarono a scoprire e
soprattutto a raccogliere le prime iscrizioni Etrusche (a partire dal celebre Annio di Viterbo)
non ci misero molto ad accorgersi che le epigrafi erano redatte con segni alfabetici del tutto
simili a quelli greci e latini, anche se molti di quei segni furono a prima vista fraintesi ed
interpretati erroneamente.
Le difficoltà, ovviamente, cominciarono quando, una volta lette più o meno correttamente
quelle iscrizioni, si passava al significato dei testi. Comincia qui il "mistero" dell'Etrusco, un
"mistero" che, nel suo aspetto più "popolare", è rimasto sostanzialmente invariato fino ad oggi.
Iniziarono allora, infatti, le complicate e minuzione ricerche etimologiche; la prima lingua ad
essere tirata in ballo fu ovviamente l'ebraico (ritenuta la "madre" di tutte le lingue viventi,
ovviamente per motivi religiosi), seguita nei secoli dagli idiomi più disparati, antichi e moderni.
Si può tranquillamente affermare che nessuna lingua al mondo non sia mai stata scomodata per
"interpretare" l'Etrusco; in questo, tra le lingue del nostro continente, un destino del genere è
toccato solo al basco (che però, naturalmente, è tuttora una lingua ben viva e del tutto
comprensibile a chi si prenda la briga d'impararla).
La separazione netta tra gli studiosi seri e i dilettanti -o "avventurieri linguistici"- risale quindi
già a questo periodo. Se da una parte, giustamente, si abbandonavano i tentativi di
comparazione etimologica (tuttora disperatamente in voga) e si tentavano altre vie,
cominciando a raggiungere i primi pur se modesti positivi risultati, dall'altra s'insisteva su una
sorta di "soluzione globale" del problema. Gli Etruschi divennero quindi il "popolo misterioso"
di casa nostra e da allora si è generalmente rimasti nell'attesa soprannaturale di una "chiave"
capace di sciogliere l' "enigma", o della scoperta di un testo bilingue abbastanza esteso (tipo
Stele di Rosetta, per intendersi) e di un "decifratore" di genio.
E alla ricerca della "chiave", per altro *sempre* in senso etimologico e senza mai tener conto
dei fallimenti del passato, si sono accaniti i dilettanti (seppur a volte muniti di titoli accademici
e di ottime ed altolocate referenze), rinnovando regolarmente gli annunci della sospirata
scoperta: ora l'Etrusco è un dialetto greco, ora è "derivato" dal sanscrito, ora dal georgiano e
dalle lingue caucasiche, ora dall'accadico o dal sumero. I "decifratori", spesso, si sono
meravigliati per l'apparente riuscita dei loro sforzi e per la "scorrevolezza" dei loro saggi di
traduzione; ma non hanno tenuto conto di una quisquilia, ovvero del fatto che, puntualmente,
tutti i loro studi sono in palese e disperata contraddizione gli uni con gli altri. Le "traduzioni"
scorrevano sempre, sia che s'interpretasse l'Etrusco alla luce di un qualche dialetto greco, sia
del sanscrito, del basco, del berbero o del venusiano nordoccidentale.
Tutto ciò non ha fatto altro, purtroppo, che attirare sull'Etruscologia la sfiducia ingiustificata di
tante persone anche di cultura, o addirittura il loro ironico sarcasmo verso quello che ha finito
per essere considerato una specie di settore "umoristico" della scienza linguistica o la palestra
preferita e discreditata per le manie di fissati e perditempo. Ogni pretesa "scoperta" -e l'ultima
in ordine cronologico, vorrei ricordarlo, è di pochi mesi fa- si è, inutile dirlo, rivelata
immediatamente assurda e di fatto inesistente; concorrendo però a rinvigorire da un lato l'idea
pseudo-romantica del "mistero" e, dall'altro, ad alimentare l'eterno scontro tra la cosiddetta ed
aborrita "scienza ufficiale" e quella "alternativa", sempre "misconosciuta" e "denigrata".
3.1: L'Alfabeto Etrusco
Come detto, le prime conoscenze dell'alfabeto Etrusco risalgono alla seconda metà del '400,
quando gli eruditi dell'epoca cominciarono a leggere correttamente alcune lettere delle
iscrizioni Etrusche che andavano raccogliendo, paragonandole giustamente a quelle simili degli
alfabeti greco e latino. Ciononostante, alcune lettere furono a lungo interpretate in modo
sbagliato: ad esempio. < O > era letta come /o/ e non come /th/ , < M > come /m/ e non come
/s/, < 8 > come /g/ o come /b/, e non come /f/.
Il ciclo delle ricerche relative alla corretta lettura dell'alfabeto Etrusco si conclude nel 1833,
quando il Lepsius riconobbe il valore di /z/ al segno < ‡ >. Oggi continuano solo gli studi su
particolari aspetti della scrittura delle iscrizioni più antiche; ma la lettura e l'interpretazione dei
segni con cui era notato l'Etrusco sono oramai acquisite definitivamente da qualcosa come
*centosessantotto* anni. Sarebbe quindi "forse" giunto il momento di spedire nel dimenticatoio
il termine "decifrazione".
Strutturalmente identico a quello latino, l'alfabeto Etrusco rivela anche ad occhio
un'evidentissima derivazione da quello greco. Sulla sua introduzione in Etruria gli antichi -che,
si badi bene, erano già concordi sulla sua derivazione greca!- fornivano versioni diverse
parlando di epoche preistoriche e chiamando in causa i Pelasgi e gli "Aborigines"; è noto il
passo di Tacito in cui egli attribuisce l'introduzione dell'alfabeto presso gli Etruschi al corinzio
Demarato, padre di Tarquinio Prisco, che sarebbe avvenuta verso la metà del VII secolo a.C.
Gli studiosi attuali sono invece concordi nel ritenere che l'alfabeto sia stato introdotto nell'Italia
centrale tirrenica in concomitanza con la più antica colonizzazione greca; ne fa fede la sua
sostanziale identità, ad esempio, con l'alfabeto osco dei popoli Sabellici (Sanniti in testa). In
particolare, gli Etruschi dovettero averlo ricevuto nella seconda metà del VIII secolo a.C. dai
coloni euboici i quali, nella prima metà di quello stesso secolo, avevano fondato le colonie di
Pitècusa (Ischia) e, soprattutto, Cuma.
L'alfabeto Etrusco è infatti pressoché identico all'alfabeto greco cumano; vale a dire, l'alfabeto
greco che fece da modello a quello Etrusco è di tipo "occidentale" (qual era, appunto, quello
euboico-calcidese). Essendo le più antiche iscrizioni Etrusche che possediamo (da Cere e da
Tarquinia) databili al primo quarto del VII secolo a.C., se ne può arguire la trasmissione da
Cuma nel corso del secolo precedente con relativa tranquillità.
Ovviamente, l'utilizzazione pratica dell'alfabeto dovette essere preceduta da un elaborato
processo di adattamento alle necessità ed alle caratteristiche della lingua Etrusca. Non tutte le
ventisei lettere greche, infatti, appaiono usate nelle iscrizioni Etrusche o quantomeno impiegate
nel loro valore fonetico originario. Alcune lettere rimasero inutilizzate perché non
corrispondenti a fonemi esistenti in Etrusco; altre furono impiegate diversamente, come il
<gamma> che non fu preso per indicare la gutturale sonora /g/, ma la corrispondente sorda
(come in latino, del resto).
Un'aggiunta ex novo fu, alla fine della serie alfabetica e in epoca più recente (verso la metà del
VI secolo a.C.) un grafema per indicare /f/ (diverso dal <phi>, e originariamente reso con il
digramma < vh >); fu usato un segno a "otto" ( < 8 > ) di origine incerta, ma che alcuni pensano
di riferire all'area sabina.
La serie alfabetica Etrusca venne definitivamente fissata, quindi, nel corso del VI secolo a.C.;
ne abbiamo una testimonianza epigrafica ben precisa nel cosiddetto "Alfabetario di Roselle"
(presso i Monti dell'Uccellina, nella Maremma grossetana), databile attorno alla metà di quel
secolo, in cui compare per la prima volta la cosiddetta "serie alfabetica modificata" (priva, cioè,
delle lettere "rifiutate" perché inutili e, quindi, tipicamente Etrusca), compreso il nuovo segno <
8 > che la chiudeva.
3.2: Sviluppo e tipologia degli alfabeti Etruschi. Distribuzione geografica.
A partire da questo momento non si registrano più differenze tra l'alfabeto delle iscrizioni e
quello modello, eccettuate quelle che, in séguito, si andarono producendo con alcune variazioni
formali delle lettere. Proprio sulla base di tali variazioni (talora abbastanza vistose) è così
possibile distinguere due tipi di alfabeti Etruschi: quelli "arcaici" (iscrizioni tra il VII e il V
secolo a.C.) e quelli "recenti" o "seriori" (iscrizioni tra il IV e il I secolo a.C.).
Oltre alle distinzioni cronologiche, ne esistono altre di carattere geografico basate sull'uso e
sull'evoluzione grafica di lettere particolari (soprattutto quelle che notavano le sibilanti). Ciò
riguarda principalmente tre sistemi alfabetici caratterizzanti l'area Etrusca meridionale (Cere e
Veio), quella centrale (Tarquinia, Vulci, Volsinii) e quella settentrionale (tutte le altre città
dell'Etruria propria, fino all'area adriatica di Spina).
Diffusosi con rapidità straordinaria in tutta l'Etruria propria (con le varianti "areali" di cui si è
appena detto), e con un sicuro anticipo nell'area centromeridionale rispetto a quella
settentrionale, l'alfabeto Etrusco fu trasmesso nelle zone etruschizzate ed anche al di fuori di
esse. Nella prima metà del VI secolo a.C. arriva nell'Etruria campana (la parte centrale della
penisola Sorrentina e la zona di Capua); nella seconda metà dello stesso secolo arriva
nell'Etruria padana (Emilia). Contemporaneamente viene adottato senza variazioni dai Veneti,
una popolazione di lingua sicuramente indoeuropea (il Venètico), mentre successivamente si
estende a tutti gli altri popoli indoeuropei Italici, sia di stirpe Sabella e di lingua Osca (Sanniti,
Marrucini, Piceni ecc.), sia di lingua Umbra, sia, soprattutto, di stirpe e di lingua Latina.
L'alfabeto è arrivato a Roma sicuramente dall'Etruria, e questo rappresenta una delle influenze
storiche più importanti e decisive degli Etruschi sulla civiltà Romana.
4.1: La Scrittura
[Rielaborazione di un appunto del 1987]
Se si esclude il "liber linteus" della celebre Mummia di Zagabria, conosciamo la scrittura
Etrusca esclusivamente da testi epigrafici, ovvero da iscrizioni. Tali iscrizioni sono per lo più di
carattere privato o, comunque, piuttosto modesto. Tranne rarissimi casi, mancano veri e propri
documenti di tipo monumentale o "ufficiale".
La scrittura Etrusca ci si presenta, nel corso dei secoli, assai varia e mutevole soprattutto dal
punto di vista paleografico, cioè della grafia e del suo sviluppo formale; non si possono
ovviamente escludere varietà di tradizioni grafiche e "calligrafiche", differenziate nel tempo ma
anche contemporanee, legate a particolari "scuole" o mode (ad esempio, nel VI secolo a.C. la
scrittura è caratterizzata generalmente da lettere molto allungate e ravvicinate fra di loro), o ad
ambienti speciali (santuari, cancellerie ufficiali ecc.).
E' opportuno anche menzionare la grande diversità dei supporti scrittòri (che vanno dalle
superfici di bronzo degli specchi alle pareti tufacee delle tombe monumentali), e l'assenza totale
di documenti d'archivio su cui basarsi per uno studio paleografico sistematico. Ciononostante,
la scrittura Etrusca mantenne sempre delle caratteristiche di fondo ben chiare, a cominciare
dall'orientamento del ductus. Fino alla fine della civiltà Etrusca, infatti, esso ebbe un
andamento da destra verso sinistra (la cosiddetta scrittura "sinistrorsa" o "retrograda") ereditato
dalla scrittura greca (dove però scomparve fin dal secolo VI a.C.). La scrittura retrograda,
sicuramente per influenza etrusca, è documentata anche nelle più antiche iscrizioni latine.
La scrittura con orientamento da sinistra verso destra ("destrorsa" o "progressiva") è invece
molto rara sia in epoca arcaica che recente. Meno raro, invece, il caso di lettere che, in
un'iscrizione sinistrorsa, sono tracciate con andamento destrorso.
Assai rari sono anche gli esempi della cosiddetta scrittura "bustrofedica" (dall'avverbio greco
<boustrophedón> "seguendo l'andamento del bove che ara un campo"; "ora in un senso, ora
nell'altro"), con le righe, cioè, disposte alternativamente nelle due direzioni.
Come in tutte le scritture dell'antichità, nessuna distinzione fu mai usata per le lettere iniziali di
frasi o di nomi propri; nella scrittura più antica, tranne rarissime eccezioni già nel corso del
secolo VII, le parole sono ancora scritte di seguito senza alcuna separazione ("scriptio
continua", ancora adesso usata per lingue come il thailandese o il tibetano); questo rende
ovviamente molto difficile la lettura e, spesso, soltanto ipotetica la distinzione tra le parole
stesse. Invece, a partire dalla seconda metà del VI secolo, si diffonde (anche se non
regolarmente) l'uso dell'interpunzione, ossia la separazione delle parole mediante segni divisòri.
Tali segni sono di solito costituiti da punti (fino a quattro nelle iscrizioni più antiche), assai più
raramente da trattini e, in età tarda, da piccoli triangoli o croci di Sant'Andrea.
Per concludere, si può ricordare che quasi sicuramente conosciamo le parole con le quali gli
Etruschi indicavano il verbo "scrivere" e il sostantivo "scritto" o "libro". In una iscrizione
funeraria bilingue etrusco-latina di Chiusi, infatti, la corrispondenza del nome del defunto, <
Quintus Scribonius > al nome, in Etrusco, < Vel Zikhu > ha fatto ragionevolmente supporre
l'equivalenza della radice latina <scrib-> e di quella Etrusca < zic-> o < zikh-> "scrivere". Di
conseguenza, il verbo al passato < zikhukhe > e < zikhunce > significa "ha scritto, scrisse",
mentre le parole < ancn zikh > significano "questo scritto" (o "questo libro"). Su un'urna
perugina si legge l'iscrizione < Larth Vetes zikhu >: questo potrebbe indicare che Larth Vetes
era stato uno "scriba".
5.1: Appunti di fonetica Etrusca
[Rielaborazione di un appunto del 1987]
Il sistema fonetico è attualmente il settore meglio conosciuto dell'Etrusco; talmente ben
conosciuto, che si è giunti ad individuare, tra l'altro, vere e proprie regole di rapporto e di
sviluppo all'interno del sistema stesso.
Acquisiti con certezza sono i suoni fondamentali della lingua, che appaiono costituiti da quattro
vocali ( /a/ /e/ /i/ /u/), una semivocale spirante labiale /v/, talora usata in sostituzione della
vocale /u/, tre consonanti occlusive sorde ( /k/ <c>, <k>, <q>, /t/, /p/) e tre aspirate ( /x/, /th/,
/ph/), una consonante spirante labiale o labiodentale (/f/), tre spiranti dentali (/s/, /s'/, /z/), due
consonanti liquide (/l/ /r/) e due nasali (/m/ /n/) e, infine, un'aspirazione (/h/) limitata perlopiù
all'inizio di parola.
Tra le caratteristiche distintive dell'Etrusco risultano quindi:
- l'assenza della vocale /o/ (che si confonde con /u/) e delle consonanti occlusive sonore /b/ /d/
/g/, tutte presenti negli alfabeti modello di origine greca e rimaste inutilizzate per la mancanza
di una correlazione fonetica in Etrusco (ma il segno per /g/, ossia il gamma greco = < C >, fu
usato per indicare una variante dell'occlusiva gutturale sorda davanti alle vocali /e/ ed /i/,
mentre il segno < K > fu usato davanti ad /a/ e < Q > davanti ad /u/, prima che si generalizzasse
l'uso di < C > davanti a tutte e quattro le vocali);
- la presenza, soprattutto in posizione iniziale, accanto all'aspirata labiale /ph/, della spirante
labiodentale /f/, resa dapprima con il digramma < VH > e poi con un segno a forma di otto < 8
>;
- la coesistenza di due sibilanti ( /s/ e /s'/), rese rispettivamente con i segni del sigma greco e del
"san" fenicio ( < M >);
- la mancanza di geminate (salvo, in epoca arcaica, /n:/ < NN >).
Altre caratteristiche salienti sono:
- i frequenti mutamenti di vocali (/a/ > /e/; /i/ > /e/; /u/ > /v/) soprattutto nella flessione dei nomi
e dei verbi:
nom.s. < clan > "figlio"
gen.s. < clens' > "del figlio"
< muluvanice > ~ < muluvenice > "dedicò, ha dedicato"
- certi fenomeni di armonia vocalica, ossia di assimilazione di consonanti vicine:
< cluthumustha > "Clitennestra" (gr. < Klytaimnestra >)
- il frequente prevalere di un unico timbro vocalico:
< aritimi > "Artemide" (gr. < Artemis >)
< fuflunsul > "di Bacco".
Si può aggiungere che abbastanza conosciuti sono alcuni fenomeni di evoluzione e di
trasformazione dalle fasi più antiche a quelle più recenti della lingua, tra i quali si collocano:
- l'attenuarsi dell'individualità della vocale atona ( < ramatha > ~ < ramutha > ~ < rametha >)
determinato dalla forte accentazione della sillaba iniziale (un'altra caratteristiche evidente
dell'Etrusco, resa palese proprio dal fenomeno di cui sopra e perfettamente confrontabile con la
situazione di altre lingue) e risoltosi infine nella sincope o nella caduta della vocale atona ( <
ramtha >) con una conseguente riduzione del vocalismo più antico e la formazione di complessi
gruppi consonantici;
- la sostituzione delle vocali cadute con consonanti liquide o nasali (/l/, /r/, /m/, /n/) in funzione
di sonanti:
< mulax > > < mlax > "dedica, offerta votiva"
< menerva > > < mnerva > "Minerva";
- la tendenza alla monottongazione, ossia alla riduzione del dittongo ad una sola vocale ( /ai/
/ei/ > /e/; /au/ > /a/):
< aisar > > < esar > "dèi"
< cautha > > < catha > "il dio Sole";
- il passaggio dei dittonghi /au/ /eu/ a /av/ /ev/:
< lautun > > < lavtn > "stirpe, 'gens' "
- l'opposizione delle serie /k/ (<c>, <k>, <q>) /t/ /p/ e /x/ /th/ /ph/, con la tendenza
all'aspirazione delle occlusive sorde:
< sec> > < sex > "figlia"
< s'uti > > < s'uthi > "tomba, sede"
< uple > > < uphle > (?)
6.1: Appunti di morfologia Etrusca: Caratteristiche morfologiche di base. Il sistema
nominale.
[Rielaborazione e integrazione di un appunto del 1987]
6.1.1. Introduzione
La morfologia è, ovviamente, il capitolo fondamentale per la conoscenza di una lingua; per
quanto riguarda l'Etrusco è quindi quello ove più forti, profondi e globali si riscontrano i limiti
e le difficoltà delle indagini. Accanto ad ipotesi e probabilità non accertate non mancano però
soddisfacenti cognizioni e dati di fatto oramai saldamente acquisiti. Ciononostante è
assolutamente prematuro -e lo resterà ancora a lungo, abbozzare una "grammatica Etrusca" di
tipo tradizionale, come alcuni studiosi sono stati peraltro indotti a fare; allo stato attuale delle
cose, le nostre conoscenze mancano ancora di troppi "punti focali" (particolarmente nel sistema
verbale) per poter anche minimamente concepire una descrizione accettabilmente completa
della morfologia Etrusca.
6.2. Caratteristiche di base della morfologia Etrusca
Da quel che è stato possibile enucleare con buona certezza dalle fonti in nostro possesso,
debbono essere sottolineate le seguenti caratteristiche morfologiche basilari dell'Etrusco:
a) La frequente sovrapposizione di suffissi (morfemi grammaticali e formativi);
b) L'uso di elementi interni nella formazione delle parole;
c) La presenza di forme nominali con tema vocalico e consonantico;
d) La presenza chiara di basi comuni al nome ed al verbo;
e) La formazione di sostantivi indicanti esseri di sesso femminile mediante terminazioni
tematiche e desinenze in <-i>, <-ia> e <-a> ( < pui >, < puia > "moglie"); presente talora un
suffisso < -tha > ( < lautni-tha> "libèrta");
f) La presenza di femminili formalmente indifferenziati;
g) La formazione di plurali (e collettivi) mediante i morfemi < -(a)r>, < -l >, < -a >, spesso con
mutamenti della vocale radicale e/o della consonante finale ( < clan > "figlio" > < clen-ar >
"figli";
< murs' > "sarcofago" > < murs-l >;
h) La presenza di plurali formalmente indistinti dal singolare;
i) La formazione di derivati mediante speciali morfemi o elementi interni, come il
frequentissimo e fortemente "tipico" < -na> (< -ina>, < -ena>), specie per gli aggettivi ( < s'uthi
> "tomba" > < s'uthi-na> "funerario, tombale"), ma anche per gentilizi, etnici (tra i quali il
nome stesso degli Etruschi, il notissimo < ras-(e)na > e nomi di città. La presenza di < -na> in
una parola latina è indice pressoché sicuro della sua provenienza Etrusca; e, come tale, diverse
parole Etrusche si sono perpetuate anche nella nostra ed in altre lingue ( < persona >, < cisterna
> ecc.).;
j) Il tipico suffisso etnico < -x> : < ruma > "Roma" > < ruma-x> "romano";
k) Il suffisso < -thur>, indicante appartenenza: < velthina > "la famiglia Velthina" > < velthinathur
> "appartenente a detta famiglia";
l) La presenza di altri morfemi formativi (suffissi) dal significato e dall'uso meno chiaro (< -n>,
< -ie>, < -e>, < -va> ecc.).
Da questi e da altri elementi appare sufficientemente chiara la natura fondamentalmente
_agglutinante_ della lingua Etrusca; una caratteristica che è uno dei più sicuri indici della sua
non appartenenza alla famiglia linguistica indoeuropea (sebbene alcune lingue indoeuropee, nel
corso della loro evoluzione, si siano evolute verso un carattere prettamente agglutinante; è il
caso, ad esempio, dell'armeno).
6.3 Il sistema nominale
Per quanto riguarda la morfologia nominale, abbiamo conoscenze sufficienti per abbozzare una
descrizione sistematica di base.
Innanzitutto, appare plausibile la distinzione tra i "casi tematici" (nominativo e accusativo,
formalmente indistinti tranne che nei pronomi), o "retti", ed i "casi obliqui", caratterizzati da
vari morfemi indicanti varie funzioni. E' stato possibile determinare con sicurezza:
1. un genitivo, caratterizzato dai morfemi:
< -s>, < -si>, < -sa>
< -l>, <-al>, < -la>
< -a> (arcaico)
2. un locativo, caratterizzato dei morfemi:
< -th>, < -thi>, < -ti>
3. un dativo (propriamente un "dativus commodi"), caratterizzato dal morfema:
< -eri > [ < spur-eri > "per la città" ]
4. un accusativo pronominale, caratterizzato dal morfema:
< -ni> [ < mi > "io" > < mi-ni > "me"]
5. Meno sicuro appare uno strumentale in < -i>, < -e>.
Sulla base delle terminazioni genitivali (senz'altro le più numerose documentate), si possono
distinguere due gruppi nominali diversi (o "declinazioni"), rispettivamente in < -s> per tutti i
temi vocalici tranne i femminili in < -i> e per la maggior parte dei temi consonantici
< ramtha > : < ramtha-s> "di R."
< fler > "offerta" : < flere-s > "dell'offerta"
< clan > "figlio" : < clan-s > "del figlio"
e in < -l> (arcaico: < -a>) per tutti i femminili in < -i> e per alcuni nomi, soprattutto di persona,
in < -s>, < -th>, < -n>:
< uni > : < uni-al> "di Giunone"
< pui > "moglie" : < pui-al> "della moglie"
< larth > : < larth-al > "di Larth"
6.3: Altre caratteristiche del sistema nominale Etrusco. La "Rideterminazione
morfologica" (o "genitivo rideterminato").
Uno dei fenomeni più peculiari che sembra emergere dall'analisi del sistema nominale Etrusco
è la cosiddetta "rideterminazione morfologica", ossia la tendenza a sottolineare (o a
"rideterminare", ma senza modifica di significato) la funzione sintattica di una parola già
espressa con apposito morfema, mediante l'aggiunta di un secondo morfema. Così, ad esempio:
< larth > "Larth"
< larth-al > "di Larth" (genitivo)
< larth-al-s'> "(idem)" (gen. rideterminato)
Da alcuni, basandosi su certe identità strutturali con la lingua basca, è stato però ipotizzato che
la base genitivale < larthal > "di Larth" potesse avere una "vita autonoma", e che, quindi, la
"rideterminazione" non sia che la semplice aggiunta di un morfema tipico del genitivo a tale
base. < Larth-al-s'> verrebbe dunque a significare "di quello di Larth" (cfr. il basco: < Peru >
"Pietro" > gen.poss. < Peru-ren > "di Pietro" > sostantivazione < Peru-ren-a > "quello di Pietro"
> gen. poss. < Peru-ren-a-ren > "di quello di Pietro". Tale ipotesi però sembra del tutto
azzardata; il genitivo Etrusco, infatti, non presenta alcuna traccia di sostantivazione della base
originaria e non si ha, come detto, alcuna palese modifica del significato.
Affine alla "rideterminazione morfologica" sembra essere il cosiddetto "genitivo del genitivo"
(o "doppio genitivo"), ossia la tendenza ad aggiungere un morfema genitivale ad un nome già al
genitivo ma in coppia con un altro al nominativo, quando questo passa dal nominativo al
genitivo. Così, ad esempio:
< Vel Avle-s' > "Vel di Avle" (nom + gen)
< Vel-us' Avle-s'-la > "di Vel di Avle" (gen + gen)
Qui si ha un'identità certa con l'analoga costruzione propria della lingua Georgiana classica:
< kal-i mep-isa-y > "la figlia del re" (nom + gen)
< kal-sa mep-isa-sa > "della figlia del re" (gen + gen)
Ripetiamo "ad nauseam" che la presenza di questa o quella identità strutturale tra l'Etrusco ed
altre lingue note non deve portare ad alcuna conclusione non suffragata dai fatti (si noti, tra
l'altro, che il collegamento Etrusco-georgiano-basco è stato uno dei "cavalli di battaglia" dei
monogenetisti, sia del "folkloristico" Nikolaj Jakovlevic' Marr che del più serio Trombetti).
Tanto per fare un esempio, l'Etrusco non mostra traccia alcuna di una delle più importanti
caratteristiche morfosintattiche sia del Georgiano che del basco, ovvero la costruzione ergativa
del periodo (che però avviene con modalità del tutto differenti nelle due lingue, ed è presente in
altri idiomi lontanissimi tra di loro come i dialetti eschimesi ed il tibetano classico). Le identità
strutturali non autorizzano alcuna ipotesi di collegamento genetico, seppure sia giusto e
doveroso farle notare quando sono certe.
6.4: Pronomi, avverbi, espressioni avverbiali e connettivi
Dei pronomi personali Etruschi abbiamo conoscenze abbastanza sicure, specialmente per
quello di prima persona singolare: < mi > "io". Nel pronome personale, a differenza del
sostantivo, l'accusativo presenta una forma propria: < mini > "me".
Anche dei pronomi e aggettivi dimostrativi possediamo una documentazione assodata: < ca >,
< eca > (arcaico: < ica >) "questo"; < ta > (arcaico: < ita >) "quello". Il pronome dimostrativo
sembra avere anche funzione di pronome personale di III persona; ne possediamo alcune forme
declinate. Accertata è anche la presenza di altre particelle di tipo pronominale, dimostrativo e
relativo: < thi >, < xi >, < ipa > e, soprattutto < an > e < in > (dal valore dimostrativo, spesso in
unione con < -c> o < -cn> : < anc >, < ancn > "questo", ecc.).
Per quanto riguarda gli avverbi e le espressioni avverbiali è stato possibile determinare con
relativa sicurezza il significato di < thui > "qui", < nac > "così, poiché" e < ix > "come". I
connettivi più importanti sono autonomi, come < etnam > "e, anche" (probabilmente formato
sulla base dimostrativa < it-, et- > e, specialmente, enclitici: < -c> "e" (= lat. <-que>), < -(u)m>
(forse di valore analogo, ma apparentemente usata per connettere intere frasi).
6.5: I Numerali
Una conoscenza oramai acquisita con discreto margine di sicurezza (sia per l'indicazione
regolare degli anni del defunto nelle iscrizioni funerarie, sia soprattutto al ritrovamento di dadi
da gioco sulle cui facce sono incisi a tutte lettere i primi sei cardinali) è quella dei numerali.
Il sistema numerale Etrusco appare di tipo decimale e le cifre vengono indicate -come nell'uso
latino e di altre lingue- con segni tratti almeno parzialmente dall'alfabeto.
I segni principali a noi noti dalle iscrizioni sono i seguenti:
< * > " 1 "
< (freccia rivolta in basso) > " 5 "
< + > " 10 "
< V > " 50 "
< | > " 100 "
Questi appaiono essere i segni basilari, analogamente a quelli latini. Le altre unità, decine e
centinaia dovevano quindi, presumibilmente, essere espresse con l'iterazione dei segni di 1, 10
e 100 o con l'aggiunta e la sottrazione di essi ai/dai segni di 5 e 50. Per il numero 1000, infine,
è probabile che fosse usato, come a Roma, il segno derivato dal "phi" greco.
Quanto ai nomi dei numerali cardinali (soprattutto basandosi sui dadi di Tuscania), si è potuti
arrivare a stabilire le seguenti corrispondenze:
< thu(n) > "uno"
< zal >, < esal > "due"
< ci > "tre"
< s'a > "quattro"
< max > "cinque"
< huth > "sei"
(Esistono però ancora alcuni dubbi su di uno scambio di significato tra <s'a> e < huth >,
sebbene la soluzione proposta sia quella più plausibile; ed a questa ci atteniamo).
Per le tre restanti unità, sono in predicato le forme < cezp > "7" oppure "8" (se "7" si avrebbe
tra l'altro una notevole somiglianza con l'analogo numerale basco, < zazpi >, che -ovviamentemolto
ha fatto discutere; ma l'orientamento attuale è quello di attribuire a < cezp > il valore di
"8"); < semph > "7 " oppure "8" (per quanto prima, ad esso è attualmente attribuito il valore di
"7"), < nurph > "9". Per quanto riguarda il "10", si suppone che ad esso debba corrispondere <
*sar>, noto però soltanto in composizione: < huth-sar > "16" (o "14"?).
Le decine, ad eccezione del "20" ( < zathrum >), si formano aggiugendo all'unità il suffisso < -
alc> / < -alx >: < ci-alx > "30", < s'e-alx > "60" (o "40"?). Formule additive-giustappositive
(fino al "6") e sottrattive (dal "7" al "9", mediante il suffisso < -em>), esprimono i numeri oltre
la decina: < ci cealx > "33", < esl-em zathrum > "18" (cioè: "due da venti", analogamente al
latino < duodeviginti >. Basandosi su questi, è stato ipotizzato che < -em> sia un morfema
ablativo, ma la sua esistenza è documentata solo nei numerali). Del tutto ignoti sono ancora i
numerali per "100" e "1000".
Per quanto riguarda gli ordinali, appaiono formati mediante l' "onnipresente" suffisso < -na>
aggiunto al genitivo del numerale ordinale: < thun-s-na > "primo", < zathrum-s-na >
"ventesimo".
Infine, mediante il suffisso < -z(i) > si formano gli avverbi numerali: < thun-z > "una volta"
(lat. < semel >), < ci-z > "tre volte" (lat. < tris > ) ecc.
6.6: La questione del plurale
Come detto, il plurale appare caratterizzato perlopiù dal morfema < -r>, preceduto o meno da
vocali eufoniche e con la presenza frequente di mutamenti nella vocale radicale del sostantivo:
sg. pl.
< clan > "figlio" < clen-a-r > "figli"
< ais > "dio" < ais-e-r > < ais-a-r > "dèi"
< tiu > "luna; mese" < tiv-r > "mesi"
Documentata l'esistenza di "pluralia tantum", a volte con l'ulteriore aggiunta di < -u>; il più
noto è
< tular >, < tular-u> "confine, confini"
Più raro un morfema < -l> (forse allofono di < -r>?), e dal valore forse collettivo:
< murs' > "sarcofago" < murs'-l > "sarcofagi"
Più chiaramente collettivi (ed in alcuni casi testimoniati assieme alla forma plurale propria)
sono i morfemi < -va>, < -ua>, < -xva> e < -cva>:
< zus'le > "offerta votiva" < zus'le-va > "l'insieme delle offerte"
< murs' > "sarcofago" < murz-ua > "l'insieme dei sarcofagi"
< fler > "offerta sacrificale" < fler-xva > "il complesso dei sacrifici"
Da menzionare il fatto che il nome accompagnato dal numerale è usualmente al singolare: < ci
avil > "tre anni" (cfr. l'ungherese < három év >, turco < üç sene >): si tratta di una caratteristica
comune alla maggior parte delle lingue agglutinanti, e non solo ad esse. In Etrusco, però, non
mancano (seppure siano rari) esempi di numerale reggente un sostantivo al plurale: < ci clenar
> "tre figli".
6.7: Derivazione
L'aggettivo denominale appare formato spesso con i morfemi < -u> / < -iu> (qualitativo)
oppure < -c> / < -x> (relazioni varie):
<ais> "dio" > <ais-iu> "divino"
<hinth> "sotto" > <hinth-iu> "infernale, "sotterraneo"
<zamathi > "oro" > <zamathi-c> "aureo"
<*athumi> "nobiltà" > <athumi-c> "nobile"
<*ruma> "Roma" > <ruma-x> "romano"
Aggettivi di possesso e/o pertinenza vengono formati coi suffissi < -na>/< -ne>/< -ni> da nomi
comuni e propri. A questo gruppo appartengono molti dei "nomina gentilia" derivati da nomi
individuali:
<ais> "dio" > <ais-na> "degli dèi"
<s'pura> "città" > <s'pura-na> "cittadino, civico"
<papa> "nonno, avo" > <pap-ni> (gentilizio)
<laut> "famiglia" > <laut-ni> "della famiglia", "libèrto"
<vei> "Veio" > <veia-ne> "veiano"
<vipi> "Vibio" > <vibi-ne> "di Vibio"
6.8. Il sistema onomastico
L'elemento più antico è il nome individuale o prenome, che in un secondo tempo è seguito dal
patronimico. Quando si passa dall'indicazione relativa all'appartenenza al padre a quella
dell'appartenenza ad un antenato capostipite, si ha la formazione del gentilizio, o <nomen
gentile>. Accanto a questi due elementi appaiono spesso il patronimico, il matronimico, il
gamonimico e, talora, il nome degli avi. Ingrandendosi poi la famiglia numericamente e
territorialmente, si ha il terzo elemento (che usualmente designa un particolare ramo del
gentilizio): il <cognomen>; si vengono quindi ad avere i <tria nomina> (<praenomen>,
<nomen> e <cognomen>), e tale formazione appare comune a tutti i popoli italici che hanno
lasciato testimonianze di nomi di persona.
Il genere è indicato chiaramente: di solito il maschile termina in consonante o in < -e>, mentre
il femminile termina in < -a> o < -i>:
m. f
< Arnth > "Arrunte" < Arnth-i >
< Aul-e> < Avl-e > "Aulo" < Aul-a >
< Larth > < Larth-i > < Larth-ia >
< Vel > < Vel-a >
a) Nome individuale:
f. < Larthia > (tomba Regolini-Calassi, Caere, VII sec.)
b) Prenome e nome:
m. < Avile Vipiiennas >
m. < Larth Paithunas >
m. < Sethre Tute >
f. < Arnthi Methli >
f. < Larthi Lethanei >
c) "Tria nomina" (sistema standard con prenome, nome e cognome):
m. < Vel Tutna Tumu >
m. < Calisna Larth Sepu >
In origine il <cognomen> evidenzia particolari caratteristiche dell'individuo (caratteristica
presente anche nei nomi latini più antichi): < palpe > "balbuziente" (lat. < Balbus >), < clute >
"zoppo, claudicante" (lat. < Claudius >, < Clodius >), < creice > "greco" (lat. < Graecus >), <
tursikina > "Etrusco" (cfr. il greco < Tyrsenoi >, < Tyrrhenoi > "Tirreni, Etruschi").
d) Con patronimico:
m. < Avle Velimna Larthal > "Avle Velimna, figlio di Larth"
(anche: < Avle Velimna Larthal clan > )
e) Con patronimico e matronimico:
m. < Laris Tarnas Velus clan Ramthasc Matunial Herma >
"Laris Tarnas (gent.) Herma, figlio di Vel e di Ramtha Matuni >
f) Con gamonimico:
f. < Thana Laucinei Lethesa >
"Thana Laucinei (moglie di) Lethe"
g) Forma genealogica:
< Arnth Velimna Aules clan Larthalisla >
"Arnth Velimna, figlio di Aule, (nipote) di Larth"
7.1: Appunti di morfologia Etrusca: Caratteristiche morfologiche di base. Il sistema
verbale.
[Rielaborazione e integrazione di un appunto del 1993]
7.1.1. Introduzione
A differenza del sistema nominale, il sistema verbale Etrusco ci appare molto meno chiaro, a
cominciare dalla sua stessa natura. Quasi sicuramente ha un carattere nominale, anche se da
alcuni è stata ipotizzato un suo carattere passivo (e, quindi, ergativo). Tale ipotesi, però, non è
suffragata da nessun elemento certo; anzi, la presenza, nel "perfetto indicativo", di una forma
passiva differenziata nettamente da quella attiva, non depone affatto a favore di questa
congettura (probabilmente "ispirata", per così dire, dal desiderio di trovare un'ulteriore identità
strutturale con lingue come il basco o il georgiano).
Si conoscono tuttavia numerose radici e diverse forme caratterizzate da speciali morfemi
(suffissi) che, con sfumature a volte difficilmente precisabili, specificano funzioni diverse

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(Fine)
Livorno, 16 luglio - 15 ottobre 2001.
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